Lavoratori digitali: personaggi in cerca d’autore…e di tutele

L’ultimo editoriale del Prof. Francesco Bacchini, per il Quotidiano di IPSOA, torna sul tema dei lavoratori digitali e in particolare di riders e fattorini telematici, la cui posizione è stata oggetto di una recente normativa regionale nel Lazio e di un accordo aziendale in Toscana.

Sempre sui riders (anche nella più ampia accezione di lavoratori “digitali”) per rilevare (ancora) che non ci siamo. A dimostrarlo due fatti recenti. L’entrata in vigore della legge della regione Lazio n. 4 del 2019 e la stipula di un accordo aziendale per disciplinare il rapporto di lavoro (subordinato) dei “fattorini telematici” in Toscana. La legge regionale, nel promuovere la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori digitali, evidenzia chiari profili di incostituzionalità. L’accordo, nato con l’intento di disciplinare la figura professionale del rider, sembra fallire nei suoi intenti. Diventa allora sempre più urgente un intervento sistematico del legislatore nazionale. In attesa, quale strada è possibile seguire?

La legge della regione Lazio n. 4, del 12 aprile 2019 (in vigore dal successivo 17), tenta di promuovere la tutela della salute e sicurezza dei prestatori nell’ambito del “lavoro digitale”; la contrattazione collettiva locale (provincia di Firenze) firma un accordo aziendale con una neonata impresa di food delivery per disciplinare il rapporto di lavoro (subordinato) dei riders (20 in tutto, per ora), nella speranza che altri imprenditori facciano altrettanto.
 
Insomma, sempre di lavoro “povero” si finisce per parlare di questi tempi: fattorini, autisti, promotori, venditori, comunque bassa manovalanza “digitale”, costantemente in bilico fra subordinazione e autonomia, fra essere o non essere degni di tutela.
Nulla di clamoroso, invero, ma ce n’è abbastanza per scriverne ancora.
Riguardo all’iniziativa legislativa laziale, essa trae origine dalla volontà (tutta politica) di introdurre, in mancanza di una specifica normativa di livello nazionale, alcuni strumenti volti a tutelare la dignità, la salute e la sicurezza dei lavoratori digitali.
Già a fronte di siffatta dichiarazione d’intenti, foriera di svariati problemi in ordine alla ripartizione della potestà legislativa Stato-Regioni, appare necessario soffermarsi, seppur brevemente sulla struttura del testo normativo.
 
Nello specifico, la legge (riecheggiando la “Carta dei diritti fondamentali del lavoro digitale nel contesto urbano della città metropolitana di Bologna) procede ad individuare i lavoratori digitali, quali destinatari delle tutele ivi previste definendoli (art. 2, c. 2), in modo volutamente assai astratto, come coloro che, “indipendentemente dalla tipologia e dalla durata del rapporto di lavoro, offrono la disponibilità della propria attività di servizio all’impresa, di seguito denominata piattaforma digitale, che organizza l’attività al fine di offrire un servizio a terzi mediante l’utilizzo di un’applicazione informatica, determinando le caratteristiche del servizio e fissandone il prezzo”. Il Capo II declina i fondamentali aspetti di tutela (anche) di tali lavoratori, ossia: salute e sicurezza (art. 3); assistenza e previdenza (art. 4); compenso e indennità speciali (art. 5); informativa preventiva in ordine a salute e sicurezza e modalità di esecuzione del rapporto (art. 6); parità di trattamento e non discriminazione nella determinazione del (proprio) rating reputazionale, ossia della customer satisfaction, vale a dire del giudizio valutativo del servizio da parte del cliente finale (art. 7). Chiude il Capo l’apparato sanzionatorio amministrativo pecuniario (da 500 a 2000 €) finalizzato alla repressione degli obblighi di cui sopra (art. 8).
 
Analizzando, più in particolare, i singoli articoli, si evidenzia come, ex art. 3, la Giunta, sentiti la Commissione consiliare competente e il Comitato regionale di coordinamento di cui all’art. 7 del d.lgs. n. 81/2008, individua, con propria deliberazione, le misure dirette a promuovere la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore digitale, con il coinvolgimento delle piattaforme digitali, le quali, “nel rispetto della normativa vigente in materia e al fine di garantire al lavoratore digitale la tutela piena e integrale contro gli infortuni nell’attività di servizio”, devono adottare “interventi e misure per la formazione in materia di salute e di sicurezza sul lavoro del lavoratore digitale e, in particolare, sui rischi e danni derivanti dall’esercizio dell’attività di servizio e sulle procedure di prevenzione e di protezione”.
Le stesse piattaforme digitali, inoltre, con oneri a proprio carico, sono tenute a fornire al lavoratore digitale dispositivi di protezione (cd. “DPI”) conformi alla disciplina in materia di salute e di sicurezza sul lavoro, nonché a provvedere alle spese di manutenzione dei mezzi e degli strumenti (spesso, se non sempre, di proprietà dei lavoratori) utilizzati per l’attività di servizio.
 
Importanti (e confuse) sono altresì le prescrizioni contenute nel successivo art. 4, a tenore del quale grava sulle piattaforme digitali l’onere di stipulare un’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali in favore dei lavoratori digitali, per danni cagionati a terzi durante lo svolgimento dell’attività di servizio, nonché quella, non meglio identificata, “per la tutela della maternità e della paternità”, senza franchigia a carico del lavoratore, il quale ha, inoltre, diritto alla tutela previdenziale obbligatoria “secondo quanto disposto dalla normativa nazionale” (presumibilmente in relazione alla specifica e concreta tipologia di rapporto di lavoro stipulato).
 
Altro onere gravante sulle piattaforme digitali meritevole di un breve cenno, è quello relativo alla predisposizione di un’informativa preventiva che illustri al lavoratore digitale:
– i rischi generali ed i rischi specifici connessi alla particolare modalità di svolgimento del lavoro di servizio;
– il luogo in cui è svolta l’attività di servizio;
– l’oggetto dell’attività di servizio;
– il compenso (non inferiore alla misura oraria minima, con eventuali maggiorazioni per determinate situazioni, prevista dai CCL, con espressa esclusione del cottimo) e le indennità speciali (indennità di prenotazione)
– gli strumenti di protezione assegnati;
– le modalità con cui l’algoritmo determina l’incontro fra la domanda e l’offerta di servizio;
– la procedura di verifica imparziale del rating reputazionale del lavoratore.
 
Il Capo III individua invece “gli strumenti” amministrativi e operativi di cui la Regione si avvarrà per dialogare con tutti i soggetti, pubblici e privati, che operano nel settore, fornendo loro servizi di supporto attraverso la creazione di un “Portale del lavoro digitale”, composto dall’anagrafe regionale dei lavoratori digitali e dal registro regionale delle piattaforme digitali.
Le piattaforme (se in regola con le disposizioni contenute nella legge) e i lavoratori digitali potranno iscriversi gratuitamente accedendo al programma annuale degli interventi aventi ad oggetto:
– l’informazione sui diritti;
– la formazione in materia di salute e di sicurezza;
– le forme di tutela integrativa in materia di previdenza e di assistenza.
 
La Regione promuove, inoltre, la stipula di accordi con INPS, INAIL e compagnie di assicurazione finalizzate ad attuare la disciplina delle tutele previdenziali e assicurative, nonché con l’INL per il monitoraggio e il controllo del lavoro digitale.
Ricostruiti gli obiettivi e i principali contenuti della Legge in commento, occorre adesso coglierne i profili di criticità.
Le perplessità sollevate attengono, essenzialmente, alla sua compatibilità con il sistema di riparto delle competenze legislative tra Stato e Regioni di cui all’art. 117 Cost., come riformato dalla L. Cost. n. 3/2001.
 
La questione appena posta in luce, di soluzione tutt’altro che immediata, trae origine dalla discussa collocazione delle materie di interesse lavoristico nell’impianto ripartitorio scolpito nel citato art. 117 Cost.
Tale norma, al c. 2, rimette all’esclusiva competenza statale il potere di legiferare nei seguenti ambiti: “ordinamento civile e penale” (lett. L), “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale” (lett. M), “previdenza sociale” (lett. O), mentre, al c. 3, individua, devolvendole alla legislazione concorrente, talune materie che intercettano a vario titolo il diritto del lavoro, tra cui “tutela e sicurezza del lavoro”, “previdenza complementare e integrativa” e “tutela della salute”, stabilendo, poi, al c. 4, che le materie residuali (non attribuite alla potestà esclusiva dello Stato ovvero a quella concorrente Stato – Regioni) vanno rimesse, in via sussidiaria, alla competenza legislativa regionale.
 
Ciò posto, è agevole intuire come le incertezze sottese alla devoluzione del potere legislativo in materia di lavoro dipendano, in particolare, quanto meno da due fattori: da un lato, l’equivocità della formula “tutela e sicurezza del lavoro”; dall’altro, la difficoltà di far convivere, senza interferenze, l’intervento esclusivo dello Stato e quello concorrente Stato – Regioni in un panorama di materie spesso dotate di confini non definiti, variabili e, per giunta, destinati a intersecarsi.
 
Proprio tali due profili di criticità, per l’appunto, stanno alla base della dubbia legittimità costituzionale della legge in commento.
Vediamone le ragioni.
 
Il primo dato, di certo non destinato a passare inosservato, consiste nel rilievo per cui la disciplina regionale appena entrata in vigore intende innanzitutto promuovere la tutela della salute e la sicurezza del lavoro quali principi fondamentali per garantire alla persona un lavoro protetto e dignitoso, nel rispetto, tra gli altri, proprio dell’art. 117, c. 3, Cost.
Nonostante il legislatore regionale dichiari di agire nel rispetto dei limiti previsti dalla Costituzione in tema di competenza normativa concorrente, non appare che ciò sia, in realtà, avvenuto.
Infatti, posto che, come sopra richiamato, la Costituzione include la materia della “tutela e sicurezza del lavoro” tra quelle di legislazione concorrente, v’è da rilevare come la stessa giurisprudenza costituzionale sia in passato intervenuta a delimitare l’effettiva portata del potere legislativo regionale in tale settore.
 
A questo proposito, in particolare, il Giudice delle leggi ha chiarito che, in concreto, compete alle Regioni soltanto la disciplina dell’organizzazione del mercato del lavoro, nell’accezione del “collocamento” e delle “politiche attive del lavoro”, restando escluse da questo ambito, di esclusiva pertinenza del legislatore nazionale, tutte le norme che incidono sulle reciproche obbligazioni che sorgono tra le parti di un contratto di lavoro.
Si tratta di principi che, in realtà, non sembrano rispettati dalla legge della Regione Lazio: in particolare, è dall’analisi del Capo II (il Capo III, di tipo promozionale, pare, tutto sommato, compatibile) che si evince come il legislatore territoriale sia intervenuto su aspetti fondamentali del rapporto di lavoro, incorrendo così nell’abusodella propria potestà normativa per come intesa nell’interpretazione del giudice costituzionale.
Il rispetto soltanto formale del dato costituzionale si evince, nello specifico, dall’intenzione del Legislatore regionale di disciplinare istituti in realtà riconducibili alla potestà esclusiva dello Stato perché rientranti in materie di cui all’art. 117, c. 2, Cost., quali l’ordinamento civile, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali e la previdenza sociale.
 
Tra tali istituti rientrano, in particolare, il compenso spettante al lavoratore digitale ex art. 5, nonché le disposizioni relative alle tutele assistenziali e previdenziali a norma dell’art. 4, oltre che la previsione, di cui all’art. 8, in tema di sanzioni amministrative pecuniarie connesse alla violazione delle prescrizioni poste dagli artt. 3 -7 della stessa legge.
 
Gli aspetti per i quali è possibile ipotizzare l’incostituzionalità della legge acquistano ancora più consistenza ove si consideri la mancata denominazione (intenzionale) del rapporto di lavoro dei riders da parte del legislatore regionale.
Il fatto cioè che la Regione non inquadri i lavoratori digitali come autonomi o subordinati, al di là del vizio originario della legge per carenza di potere normativo “a monte”, espone al rischio di antinomie tra i contenuti delle tutele ivi previste e la fisionomia di taluni istituti già disciplinati dal legislatore nazionale.
 
È da rilevare, infatti, come il legislatore regionale, così facendo, estenda, seppur genericamente, tutele tipiche del lavoro subordinato (ad esempio, quelle previdenziali ed assistenziali) a lavoratori la cui qualificazione giuridica è, in realtà, ancora incerta e, comunque, rimessa alla giurisdizione del lavoro.
In ultima analisi, al di là dei profili di incostituzionalità sopra adombrati, la legge in commento si presenta, anche e soprattutto, di dubbia opportunità alla luce delle osservazioni in termini di politica del diritto: sembra, infatti, che la stessa ponga le basi affinché il lavoro digitale sia destinatario di una regolamentazione tutt’altro che omogenea nel contesto nazionale, esponendo al rischio che la disciplina in materia venga affidata esclusivamente all’arbitrio dei singoli legislatori regionali, ingenerando tutt’altro che improbabili rischi di “dumping sociale” ancorché in una prospettiva eminentemente “rimediale”.
 
Le riflessioni in merito a quali siano gli strumenti oggi utilizzabili al fine di disciplinare il lavoro digitale si rivelano, inoltre, ancor più attuali, arricchendosi negli ultimi giorni, di un nuovo ambito di contrattazione collettiva.
Risale, infatti, allo scorso 8 maggio la notizia riguardante un’azienda fiorentina attiva (solo da un paio di mesi) nel settore della consegna di cibo a domicilio, la quale ha siglato con i sindacati locali (provincia di Firenze) un accordo di secondo livello finalizzato all’assunzione di 20 riders a tempo indeterminato, nonché al riconoscimento dei diritti spettanti al lavoratore subordinato: ciò sul fronte sia della retribuzione mensile, sia del diritto alle ferie, ai permessi o alle assenze per malattia e infortunio (tutte prerogative ancora non conferite, come anticipato, da norme nazionali valide in senso generale ed astratto, nei confronti di tali tipologie di lavoratori).
A destare perplessità è, anzitutto, la qualificazione formale del contratto in esame, intitolato, testualmente, “Verbale di accordo quadro – riders Toscana”.  Scarsamente comprensibili sono le ragioni di tale dicitura.
 
L’incipit del testo in esame, infatti, enuncia la volontà delle parti di stabilire un accordo quadro sperimentale per la Provincia di Firenze e successivamente anche per la Regione Toscana. Ciò dichiarato sul piano delle aspettative di diffusione dell’iniziativa in oggetto, rimane comunque fermo cha a sottoscrivere l’accordo è stata unicamente la società datrice e non, invece, il complesso delle organizzazioni esponenziali di categoria: conseguentemente, nessun dubbio pare possa nutrirsi rispetto alla validità di tale atto nell’ambito, per ora, della sola azienda firmataria e non a livello regionale.
 
Ciò posto, l’accordo in oggetto, con il dichiarato intento di disciplinare la figura professionale del “rider” anche in relazione a nuovi modelli produttivi ed organizzativi introdotti dalla GIG economy, richiama il CCNL nazionale Merci, logistica e spedizioni (per come modificato dall’ipotesi di rinnovo risalente al dicembre 2017 che ha, tra l’altro, abolito il divieto di utilizzo del lavoro a chiamata) e, spiegano gli stessi sindacati, dovrebbe comportare, in favore dei neoriders fiorentini, il pagamento delle ore effettivamente lavorate e non in base alle consegne, utilizzando la cornice tipologica del personale viaggiante impiegato in mansioni discontinue (una sorta di variazione sul tema del lavoro intermittente) di cui ai Regi Decreti n. 692 e 2657 del 1923 (sia consentito sottolineare il paradosso che per regolare il lavoro dei “fattorini telematici” della GIG economy digitale, si debba fare riferimento e utilizzare norme pensate nel lontanissimo e “arcaico” 1923).
Questa affermazione, da un’analisi del medesimo accordo, si rileva, comunque, infondata.
 
Le previsioni negoziali, infatti, definiscono l’orario di lavoro del rider come il tempo dedicato a tutte le operazioni di trasporto del prodotto (ritiro, tragitto e consegna; v. Punto D, 1), aggiungendo poi che esulano dall’orario effettivo di lavoro tutti i tempi non ricompresi nel precedente punto 1 e che per i tempi di disponibilità è dovuto unicamente il trattamento di indennità oraria pari a 0,60 euro lordi (Punto D, 2).
Di conseguenza, in virtù delle previsioni richiamate, il rider avrà diritto alla retribuzione oraria prevista dal CCNL di categoria soltanto ove riceva ordini di consegna; per converso, qualora nessun utente del portale chieda di fruire del servizio a domicilio, al lavoratore sarà riservato il trattamento economico orario pari a 0,60 euro lordi.
 
Siffatta disciplina, in concreto, smentisce, quindi, le premesse annunciate in merito alla stima del compenso sulla base delle ore di lavoro e non, invece, in base a ciascuna consegna portata a compimento.
In attesa, dunque, di un intervento sistematico del legislatore nazionale inteso a tutelare il lavoro “in tutte le sue forme ed applicazioni”, e visti i richiamati profili di possibile e probabile incostituzionalità delle iniziative normative regionali, appare ragionevole ritenere che lo strumento più idoneo a disciplinare la materia in esame continui ad essere quello della contrattazione collettiva, anche di secondo livello; in tale caso, tuttavia, non sembra che l’accordo in commento abbia colto nel segno.
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Gli effetti giuslavoristici della sentenza Uber.

La sentenza cosiddetta Uber della Corte di Giustizia uscita ieri (Sentenza C-434/15) apre interessanti scenari sotto il profilo Giuslavoristico per quella che oggi si chiama gig economy. Nonostante le affermazioni della società secondo la quale “questa sentenza non comporterà cambiamenti nella maggior parte dei Paesi dell’Ue dove già siamo presenti e in cui operiamo in base alla legge sui trasporti “, dalla motivazione della Corte emergono spunti e affermazione di principi che avranno pesanti ripercussioni relativamente alla qualificazione del rapporto fra la piattaforma, e le piattaforme che operano in modo analogo, e gli erogatori del servizio. Quindi può darsi che non ci siano cambiamenti nel settore dei trasporti, ma ce ne potrebbero essere per gli operatori di Uber, e in modo più ampio per quelli della gig economy, dal punto di vista del rapporto di lavoro dei loro collaboratori.   Com’è noto infatti questo tipo di piattaforme si avvale non di lavoratori subordinati, ma bensì di personale inquadrato con le più svariate tipologie contrattuali.  Una delle argomentazioni a sostegno di questo inquadramento contrattuale è che le piattaforme sarebbero semplici intermediari di servizi, non organizzatori degli stessi, e che pertanto si giustificherebbe la natura autonoma del rapporto essendoci un contatto diretto fra l’utente e il fornitore del servizio richiesto. E che mancherebbe da parte dell’operatore qualsiasi organizzazione del servizio, operatore la cui funzione sarebbe meramente la facilitazione dell’incontro fra domanda e offerta del servizio.
Ma il parere della Corte è stato ben diverso. Ha infatti ritenuto che il servizio di Uber “non è soltanto un servizio d’intermediazione che consiste nel mettere in contatto, mediante un’applicazione per smartphone, un conducente non professionista che utilizza il proprio veicolo e una persona che intende effettuare uno spostamento in area urbana…“, ma viceversa è rappresentato da una vera e propria organizzazione di lavoro e di lavoratori “…parte integrante di un servizio complessivo in cui l’elemento principale è un servizio di trasporto” .  È però evidente che se siamo in presenza di un vero e proprio organizzatore/operatore di servizi di trasporto (o di consegna a domicilio o di altri servizi analoghi) cambia completamente la prospettiva relativamente al rapporto di lavoro di chi opera nell’ambito dell’organizzazione. Diventa quindi molto più difficile sostenere la natura autonoma del rapporto di lavoro, specie in presenza di una situazione, quale quella evidenziata dalla sentenza in cui tale società riceve tale somma dal cliente prima di versarne una parte al conducente non professionista del veicolo e che essa esercita un determinato controllo sulla qualità dei veicoli e dei loro conducenti nonché sul comportamento di quest’ultimi, che può portare, se del caso, alla loro esclusione” . Ed è proprio quest’ultima affermazione relativamente alle attività di controllo e di gestione della prestazione, fino all’eventuale “allontanamento” /licenziamento del conducente, che può avere maggiore rilevanza in termini di qualificazione del rapporto di lavoro. E potrebbe spingere ad una svolta in senso restrittivo della giurisprudenza della Corte di Cassazione nella individuazione degli indici della subordinazione, che costituiscono il criterio principe per la identificazione del rapporto di lavoro subordinato. A queste considerazioni si possono aggiungere le conclusioni cui era giunto nella propria relazione l’avvocato Generale Szpunar: “i conducenti che operano per Uber non svolgono un’attività economica indipendente, quantomeno quando operano nell’ambito dei servizi di quest’ultima”. È pur vero che si tratta di una decisione presa nell’ambito della direttiva sui trasporti comunitari e non in una causa che aveva ad oggetto il riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato, ma certamente, non funzionando la giustizia compartimenti stagni, non si potrà in futuro prescindere da queste argomentazioni anche in ambito lavoristico.

Non discriminare non è una cortesia è un obbligo.

Valgono le competenze e non le caratteristiche del candidato! Lo dice la logica e lo dicono le norme. Non si può selezionare una persona rispetto al sesso, all’età, all’orientamento sessuale, allo stato di salute e alle convinzioni politiche e religiose.

È di pochi giorni fa una inserzione in cui in sfregio al diritto ci si riferisce al sesso e alla presenza fisica della candidata ideale. Al di là di ogni polemica e nella consapevolezza che a volte si discrimina senza quasi neppure accorgersene, tanto pregiudizi e abiti mentali sono profondamente radicati in noi, crediamo sia necessario tenere alta l’attenzione e segnalare eventuali comportamenti scorretti tanto più se vi è tutta una normativa che si frappone fra il nostro punto di vista e il comportamento corretto.

Per dare il giusto peso a quanto è successo, e avviene ogni giorno, ho chiesto all’avvocata Giulietta Bergamaschi di ricordarci le norme che tutelano le pari opportunità nel momento dell’ingresso nel mondo del lavoro. Propongo anche un tag per chi desiderasse estendere l’informazione #altrocheDonnaBellaPresenza

Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone del settore pubblico e privato con riferimento, fra l’altro, all’accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione (art. 3 comma I lett. a) del D.lgs. 216/2003.

Per quanto riguarda il fattore discriminante del genere, la parità di accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma, o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e i criteri di assunzione, è garantita, fra gli altri, dall’art. 27 del D.lgs. 198/2006 (Codice delle Pari Opportunità). Il Codice vieta la discriminazione diretta attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, e la discriminazione indiretta attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso.

Fanno eccezione i casi in cui l’appartenenza all’uno o altro sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione. È il caso per esempio dei lavori nella moda. Se ho bisogno che si indossi un abito femminile selezionerò una modella così come ricercherò una mamma e non un papà volessi promuovere un prodotto indirizzato alla peculiarità specifica di una donna madre (e non rivolto quindi a un genitore).

Per quanto riguarda il rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza nell’ambito del rapporto di lavoro, non costituiscono atti di discriminazione le differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione/convinzioni personali/handicap/età/orientamento sessuale, qualora per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata costituiscano un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività (art. 3 comma III D.lgs. 2016/2003).

Corretto quindi che per una fiera di calzature da donna si ricerchi una hostess che indossi la taglia di scarpe 37 ma non che abbia i capelli liberi e non coperti da un velo. Lo stesso che invece sarebbe pregiudiziale nel caso la modella promuovesse uno shampoo. Vi è poi un altro aspetto importante da sottolineare. Chi cade in un comportamento discriminatorio è responsabile e non può appellarsi al fatto di non essersene accorto. La discriminazione ha infatti natura oggettiva e non rileva la dimensione soggettiva.

Il diritto antidiscriminatorio guarda esclusivamente all’effetto del trattamento, al suo verificarsi prettamente oggettivo: è irrilevante per la Cassazione il profilo soggettivo dell’intento dell’agente perché «la discriminazione opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro» (Cass. Civ., Sez. Lav., 5 aprile 2016, n. 6575).

Link alla pagina della 27° Ora del Corriere.

Due diligence sui contratti di lavoro autonomo.

Entra oggi in vigore la nuova legge sul lavoro autonomo (legge 81/2017, cosiddetto Jobs Act degli autonomi).
Per effetto della nuova normativa diventano obsoleti i vecchi contratti di collaborazione continuativa, occasionale e professionali. Infatti non sono più valide le clausole che permettono:
– all’imprenditore (committente) la facoltà di modificare unilateralmente le condizioni del contratto;
– il recesso senza congruo preavviso in caso di prestazione continuativa;
– termini di pagamento superiori a 60 giorni;
Si ricorda inoltre che la riforma introduce il principio del contratto scritto, ancorché questo avvenga in modo un po’ machiavellico. Infatti  “si considera abusivo il rifiuto del committente di stipulare il contratto in forma scritta”, la cui mancanza produce solo il diritto al risarcimento del danno  a favore del consulente, che abbia richiesto la forma scritta,  senza prevedere l’invalidità o l’inefficacia del contratto.
I contratti di lavoro autonomo sono stati soggetti in questi ultimi due anni ad una profonda revisione che, partendo dalla sostanziale abolizione dei contratti a progetto intervenuta con il Jobs Act, ha interessato le invenzioni realizzate dai collaboratori nell’ambito del rapporto fino alla novità di oggi.
Pertanto è fortemente consigliabile  effettuare una due diligence dei contratti di lavoro autonomo in essere per essere sicuri di non trovarsi di fronte a sgradite sorprese, foriere anche di gravi conseguenze.
Già il fatto che il contratto risalga a qualche tempo fa dovrebbe far scattare un campanello di allarme e spingere per un’immediata revisione, specie se a suo tempo non era stato scritto ad hoc, ma era stato mutuato, o peggio ancora ricalcato, da uno dei tanti template in circolazione all’epoca.
Almeno queste aree dovranno quindi essere messe sotto esame:

  • Recesso
  • Preavviso
  • Modalità di esecuzione
  • Invenzioni
  • Modalità e termini di pagamento
  • Malattia/infortuni

Il Lavoro di domani: il superamento “dell’orario di lavoro”.

Il rapporto di lavoro è storicamente legato al concetto di orario, il tempo della prestazione.  L’istituto dell’orario di lavoro trova così ampio spazio nella contrattazione, collettiva e individuale, che lo disciplina in positivo con la finalità di individuare il “giusto corrispettivo” ed evitare che la prestazione diventi oltremodo gravosa. Dal punto di vista datoriale, tutto ciò si traduce nell’esigenza di rilevare le presenze, spesso con sistemi complessi e dati più o meno integrati in modo automatico con i centri paghe, interni o esterni all’azienda. Una mole di dati direttamente proporzionale alla complessità organizzativa della singole realtà aziendali. Flessibilità, prestazioni esterne alla sede, straordinari o altri istituti possono ulteriormente incrementare la mole di dati necessari a integrare il complesso delle ore lavorate e complicare il sistema di rilevamento. La tecnologia ha reso possibili soluzioni di monitoraggio più semplici e a costi sempre più accessibili, con la rilevazione di prestazioni spesso disegnate sulle esigenze del singolo datore di lavoro. In alcuni settori, però, si assiste a un fenomeno interessante, che vede lo stesso lavoratore organizzare la sua attività o valutare la prestazione rispetto a parametri che non sono direttamente riconducibili al concetto di tempo. Per esempio una società specializzata in consegne a domicilio ha sperimentato un sistema di rilevamento della prestazione basato sul numero medio di consegne svolte dall’operatore nel territorio di riferimento. Individuata la media delle consegne svolte da quell’operatore, si è valutata “normale” la prestazione prossima a quel numero, per eccesso o per difetto: il tempo impiegato a effettuare le consegne, anche se eventualmente inserito in un “arco di impegno” giornaliero (che possono essere le 24 ore o 16 ore o 12, a seconda dei diversi casi), non è rilevante. Si tratta di un modello sperimentale, che francamente delinea difficoltà di coesistenza con l’ordinamento lavoristico corrente. Ci sono innegabili vantaggi e risparmi connessi allo snellimento del sistema di rilevamento e delle risorse chiamate a gestirlo ma possono emergere anche problemi. Si pensi, per esempio, che anche la prestazione straordinaria dovrà essere valutata sulla base del numero di consegne “eccedente” rispetto al parametro base. È anche chiaro che modelli simili non sono replicabili in tutti i settori produttivi. In ogni caso sono esperimenti indicativi del tentativo di superare il tradizionale concetto di prestazione lavorativa scollegandolo dal parametro esclusivamente temporale.

Reati nella gestione del personale.

A seguito di un’importante sentenza della Corte di Cassazione Link, ecco alcune considerazioni.
EFFETTO ESPANSIVO DEL DIRITTO PENALE: L’ESTORSIONE NEL RAPPORTO DI LAVORO
Il 25 marzo dello scorso anno Lexellent organizzava un convegno dal titolo “ I reati nella gestione del lavoro”.  A commento e presentazione del seminario scrivevamo “Lo scopo del seminario è quello di analizzare gli aspetti problematici della “supplenza penale” a tutela delle condizioni di lavoro…….verranno analizzati quei comportamenti che sin d’ora hanno avuto conseguenze quasi esclusivamente in ambito lavoristico, ma che d’ora in avanti potrebbero essere maggiormente perseguiti anche a livello penale; solo per citare alcuni esempi, l’estorsione nei rapporti di lavoro, l’interferenza illecita nella vita privata e la diffamazione attraverso l’utilizzo indiscriminato dei social network.”. Volevamo infatti segnalare ai nostri clienti un fenomeno del quale ci eravamo accorti, e di particolare rilevanza.
Fino al marzo dello scorso anno il sistema del diritto del lavoro nel nostro Paese era incardinato su un impianto normativo nato oltre 40 anni prima incentrato su garanzie rigide, con una ampia tutela accordata al lavoratore in caso di violazione delle norme da parte del datore di lavoro ed in cui,a differenza di quanto si possa pensare, il lavoratore in quanto “individuo” passava per certi versi in secondo piano, perché in realtà al centro di tutto il sistema c’era il “posto di lavoro”, la sua tutela, la sua protezione, ma soprattutto la sua intangibilità: la reintegra, il divieto di modifica delle mansioni. Era un sistema che rispondeva alle esigenze del tempo e dei valori esistenti quando era nato, un sistema oggi non più adeguato al nuovo sentire collettivo.
La rigidità del sistema ha, però, prodotto anche degli effetti collaterali. Non ha consentito che potessero esprimersi forme diverse di tutela: lo Statuto dei Lavoratori bastava e avanzava e non c’era assolutamente bisogno di dare spazio a forme alternative di protezione dei lavoratori i quali, da parte loro, si vedevano costretti, o erano ben felici, di rinunciare all’affermazione di diritti diversi ed individuali in favore di una tutela, magari un pò fanè, ma certamente assai efficace ed a fronte della quale si poteva ben facilmente rinunciare a domande e bisogni il cui accoglimento appariva molto più incerto. E, dal canto loro, anche gli stessi giudici erano restii a dare ingresso a temi quali quello della parità, della discriminazione, dei danni morali a fronte di un sistema che proteggeva in modo forse meccanicistico ma certamente adeguato il lavoratore.
Il sistema di pesi e contrappesi aveva, come sempre, una sua logica. E così, in un ordinamento particolarmente rigido potevano trovare spazio e comprensione fenomeni ed atteggiamenti che, pur considerati disdicevoli venivano sostanzialmente sopportati. E ci chiedevamo se oggi che il sistema è completamente cambiato l’approccio a quei comportamenti resterà immutato? Saranno ancora sostanzialmente tollerate situazioni che si pongono oltre il confine del lecito? Cosa succederà nelle aule di giustizia? Le molestie nei confronti dei lavoratori, linguaggi non appropriati, esclusioni motivate solo dalla antipatia personale, trattamenti economici e normativi non giustificati dalla competenza professionale, saranno ancora valutati con sufficienza, come una risposta forse un pò eccessiva, ma tutto sommato ineludibile in un sistema bloccato che non offriva alternative legalmente percorribili e che apriva ampi spazi per furbetti e lavativi.
La risposta era negativa ed oggi le prime conferme di quello che dicevamo giungono dalla Corte di Cassazione. Con la sentenza 18727/16 è stato condannato per estorsione un imprenditore che aveva costretto i candidati all’assunzione ad sottoscrivere un contratto simulato part time, pur già sapendo che l’orario di lavoro effettivo stato a tempo pieno e che gli aveva poi costretti a firmare una lettera di dimissioni in bianco, e imponeva loro di dichiarare il falso in occasione di una visita ispettiva intervenuta nel corso del rapporto.
Secondo la Cassazione può esserci estorsione anche quando “ il potere di autodeterminazione della vittima non è completamente annullato, ma è, tuttavia, limitato in maniera considerevole: in altri termini, il soggetto passivo dell’estorsione è posto nell’alternativa di far conseguire all’agente il vantaggio economico voluto ovvero di subire un pregiudizio diretto e immediato” e conseguentemente “ in questa prospettiva, anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l’altrui volontà; in tal caso, l’ingiustizia del proposito rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno rivolta alla vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente, diventa ingiusto per il fine cui è diretto”
vo dell’irrilevanza del formale ricorso al contratto, allorchè questo risulta strumentalizzato al perseguimento di un ingiusto profitto.
Invero, nella sentenza impugnata (la cui lettura va integrata con quella della sentenza di primo grado in presenza di una c.d. “doppia conforme” in punto affermazione della penale responsabilità con riferimento ai reati di estorsione) viene tracciato, in maniera logica ed esaustiva, un quadro globale di timore dei dipendenti, in ragione della particolare situazione del mercato del lavoro (in cui l’offerta superava di gran lunga la domanda) e in presenza di comportamenti certamente prevaricatori del datore di lavoro, sì da rendere evidente che, anche nel caso in cui sin dal momento di instaurazione del rapporto il lavoratore avesse “accettato” di non rivendicare i propri diritti, siffatta accettazione non era libera, ma condizionata dall’assenza di possibilità alternative di lavoro” Ricorda poi la Corte che la giurisprudenza “ è costante nel ritenere che un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell’accettazione da parte di quest’ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude, di per sè, la sussistenza dei presupposti dell’estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo, può essere usato per scopi diversi da quelli per cui è apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perchè è ingiusto il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche di un particolare settore di impiego della manodopera”

La Trasformazione nel rapporto di lavoro.

I rapporti di lavoro flessibili: le nuove tipologie di lavoro quale risposta alla necessità di necessità.

I Flessibilità – Durata e Orario

Statistiche Job Sharing
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II Felssibilità – Contesto e Oggetto della prestazione

Statistiche Telelavoro
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III Flessibilità – Il luogo della prestazione

Statistiche Smartworking
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VOTATA LA FIDUCIA SUL DECRETO LAVORO.

La Camera, con 333 voti favorevoli e 159 contrari, ha votato la questione di fiducia, posta dal Governo, sull’approvazione, senza emendamenti e articoli aggiuntivi, dell’articolo unico del disegno di legge (C. 2208-B) di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34, recante disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese.
Presupposti:
– perdurante crisi occupazionale
– incertezza del quadro economico in cui operano le imprese
Istituti interessati:
– contratto di lavoro a termine
– contratto di apprendistato
Applicazione:
– rapporti di lavoro costituiti a decorrere dalla entrata in vigore del decreto
Tempi di adeguamento:
– 31 dicembre 2014
Verifica da parte del Ministero del Lavoro:
– decorsi 12 mesi
Obiettivo:
– occupazione
Fine ultimo (da attendere e verificare):
– testo unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro
– in via sperimentale, contratto a tempo indeterminato a protezione crescete
Modifiche al D.lgs. n. 368/2001
“IN PILLOLE”

E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato concluso tra datore di lavoro e lavoratore:
• la durata del contratto non deve essere superiore a 36 mesi
• ai fini del computo massimo di durata dei 36 mesi si tiene conto dei periodi di missione aventi ad oggetto mansioni equivalenti
• la durata dei 36 mesi è comprensiva di eventuali proroghe
• le proroghe sono ammesse fino ad un massimo di 5 nell’arco dei complessivi 36 mesi, indipendentemente dal numero dei rinnovi
• il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione
Esenzione dal rispetto della percentuale del 20%:
– datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti (i.e. è sempre possibile stipulare un contratto a tempo determinato)
– istituti pubblici di ricerca o enti privati di ricerca che stipulino contratti per l’esercizio in via esclusiva di attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa (i.e. i contratti aventi ad oggetto attività di ricerca scientifica possono avere durata pari a quella del progetto al quale si riferiscono)
Sanzione amministrativa applicata per ciascun lavoratore in caso di violazione del limite percentuale del 20%:
– 1 lavoratore assunto oltre il limite  sanzione amministrativa pari al 20% della retribuzione per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro
– 2 o più lavoratori assunti oltre il limite  sanzione amministrativa pari al 50% della retribuzione per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro
Maternità:
per le lavoratrici madri il congedo di maternità intervenuto nella esecuzione di un contratto a termine concorre a determinare il periodo di attività lavorativa utile a conseguire il diritto di precedenza nelle assunzione a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi con riferimento alle mansioni già espletate
Modifiche al D.lgs. n. 167/2011
“IN PILLOLE”

Il contratto di apprendistato contiene il piano formativo individuale:
• in forma sintetica
• definito anche sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali
Disciplina specifica per i datori di lavoro con 50 o più dipendenti 
assunzione di nuovi apprendisti subordinata alla prosecuzione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro alla fine del periodo di apprendistato, nei 36 mesi che precedono la nuova assunzione, di almeno il 20% degli apprendisti dipendenti
Disciplina specifica per le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano che abbiano definito un sistema di alternanza scuola-lavoro 
specifiche modalità di utilizzo del contratto per lo svolgimento di attività stagionali previste dai contratti collettivi di lavoro.
 
Per scaricare il documento in PDF cliccare il link Fiducia Decreto Lavoro – 13 maggio 2014