Giudizio medico alla mansione, limitazioni e prescrizioni, disabilità, accomodamenti ragionevoli e licenziamento discriminatorio

Pubblichiamo di seguito l’articolo del Prof. Francesco Bacchini su Diritto24. Il contributo torna sul tema del diritto al lavoro dei disabili focalizzando sulla nuova disciplina antidiscriminatoria europea.
Come si è già avuto modo di osservare in questa sede (cfr. “L’inserimento lavorativo delle persone con disabilità“, pubblicato il 14.5.19), il tema dell’inclusione lavorativa dei portatori di disabilità condiziona il rapporto di lavoro nella sua interezza, informando la disciplina di tutte le sue fasi: instaurazione (tramite le previsioni della L. n. 68/1999 in materia di collocamento obbligatorio); esecuzione (mediante le garanzie, di cui infra, dirette all’effettivo mantenimento del soggetto disabile – anche per patologie sopravvenute – in azienda); scioglimento (per le tutele avverso il licenziamento discriminatorio intimato in ragione della sola disabilità).
La necessità di assicurare il pieno inserimento del lavoratore disabile nella comunità aziendale sta, anzitutto, alla base del nuovo Diritto antidiscriminatorio europeo in materia di occupazione e condizioni di lavoro.
La Direttiva 2000/78 CE, infatti, ha imposto ai datori di lavoro l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sempre che tali misure non implichino un onere finanziario sproporzionato.
Tale vincolo, dapprima ignorato dal legislatore italiano, è stato in seguito recepito (anche sulla scorta della condanna inflitta dalla Corte di giustizia nella C-312/11) tramite l’introduzione, nel corpo dell’art. 3 del D. Lgs. n. 216/2003, del c. 3-bis, che così recita: “al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.
Conseguentemente, alla luce della novella legislativa, il datore di lavoro è tenuto a fronteggiare la condizione di disabilità del dipendente adottando ogni accorgimento ragionevole di tipo organizzativo (ad es., la modificazione delle mansioni, la riduzione dell’orario o dei ritmi di lavoro, la trasformazione del contratto di lavoro da full-time in part-time) o di tipo tecnico (ad es., la dotazione di peculiari strumenti o attrezzature di lavoro, la sistemazione delle postazioni lavorative e l’abbattimento delle barriere architettoniche) che consentano, se non di superare, almeno di mitigare i limiti scaturenti dalla patologia inabilitante del lavoratore (si veda sull’argomento il punto 10 dell’Accordo Interconfederale Confindustria, CGIL, CISL, UIL del 12/12/2018 “Salute e sicurezza. Attuazione del patto per la fabbrica”).
Paradossalmente tale obbligo risulta maggiormente rilevante e impegnativo proprio a fronte della c.d. “disabilità sopravvenuta”, ossia nel caso in cui la “duratura” menomazione fisica, mentale, intellettuale o sensoriale del lavoratore sia intervenuta in costanza di rapporto ma non sia scaturita dall’inadempimento da parte del datore di lavoro degli obblighi posti a tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori (in questo caso, ex art. 1, c. 7, L. n. 98/1999, il datore è tenuto a garantire la conservazione del posto di lavoro a chi sia divenuto disabile in conseguenza di infortunio sul lavoro o malattia professionale).
La giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, infatti, in ossequio alla nozione europea di disabilità ricavabile dalla Direttiva 2000/78 CE e alla consolidata interpretazione della Corte di Giustizia Europea, ritiene che la malattia di lunga durata, non breve e transitoria (fra le tante, CGUE, 1 dicembre 2015, C-395/15) con attitudine ad incidere e ostacolare la vita professionale per un lungo periodo, integri, indipendentemente dal giudizio e dal grado di invalidità (per la computabilità nella quota di riserva ex l. n. 68/1999), la nozione di handicap ovvero di disabilità (Trib. Milano, sent. 11/02/2013 e Trib. Bologna ord. 18/06/2013) con ciò imponendo l’obbligo della previa verifica, a carico del datore di lavoro, circa la possibilità di adattamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro ai fini della legittimità del rerecesso (Cass. Civ. Sez. Lav., 19/3/2018, n. 6798), conseguendone che laddove il datore di lavoro non provi di averli adottati (o non dimostri l’impossibilità di metterli in atto perché economicamente non proporzionati alle dimensione e alle caratteristiche dell’impresa o non rispettosi delle condizioni di lavoro dei colleghi dell’invalido, Cass. Civ. Sez. Lav., 26/10/2018, n. 27243), il licenziamento irrogato a un lavoratore disabile per sopravvenuta inidoneità psico-fisica allo svolgimento delle mansioni, deve ritenersi ingiustificato per violazione del principio di non discriminazione (Trib. Pisa, 16/04/2015).
La questione della sopravvenuta malattia di lunga durata che, compromettendo in modo persistente lo stato psico-fisico, integra la condizione di disabilità, necessariamente intercetta la disciplina dell’obbligo di sorveglianza sanitaria (ovvero, ex art. 2, lett. m), l’insieme degli atti medici finalizzati alla tutela dello stato di salute e sicurezza dei lavoratori, in relazione all’ambiente di lavoro, ai fattori di rischio professionali e alle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa), di cui al T.U.S.L. e, segnatamente, quella del giudizio medico relativo alla mansione specifica di lavoro.
Trattasi di questione assai rilevante se solo si riflette sui, preoccupanti, dati 2018 dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane secondo i quali circa il 40% della popolazione, ossia 24 milioni di italiani, sono affetti da malattie croniche o multi-croniche (poco più della metà); secondo stime di proiezione nel 2028 nella classe di età 45-74 anni, quelli affetti: da ipertensione saranno 7 milioni, da artrosi/artrite 6 milioni, da osteoporosi più di 2 milioni e mezzo, da diabete 2 milioni, da cardiopatie 1 milione abbondante. Secondo altri dati meno recenti (PH Work – Promoting health work for people whit chronic illness, 2011-2013) quasi il 25% della popolazione in età lavorativa è affetta da almeno una malattia cronica, con proiezioni in deciso aumento rispetto agli over 55, ossia la fascia di popolazione economicamente attiva maggiormente soggetta al rischio di idoneità solo parziale o discontinua al lavoro.
Al cospetto di tale situazione, pertanto, il giudizio di inidoneità o di idoneità parziale con limitazioni e/o prescrizioni, permanente (e non temporaneo) alla mansione lavorativa (ricorribile, sia dal lavoratore che dal datore, entro 30 giorni dalla comunicazione, nei confronti della commissione medica dell’ASL) espresso ex art. 41, c. 5, T.U.S.L., dal medico competente in relazione a patologie croniche durature, finisce fatalmente per sancire lo stato di disabilità del prestatore e con esso l’insorgenza da parte del datore di lavoro, vincolato ex art. 42 ad attuare le misure sanitarie, dell’obbligo di adottare gli accomodamenti ragionevoli di cui all’art. 3, c. 3-bis, del D. Lgs. n. 216/2003.
L’adempimento di tale obbligo condiziona, infatti, il potere di recesso del datore di lavoro, il quale potrà legittimamente licenziare il lavoratore (per giustificato motivo oggettivo) a fronte della sopravvenuta inidoneità alla mansione per motivi di salute, solo dopo aver adottato tutti gli accomodamenti ragionevoli, oppure dopo aver dimostrato l’inesistenza o l’irragionevolezza, se esistenti, dei possibili adattamenti per comprovata sproporzione degli oneri finanziari necessari per realizzarli: pena la reintegrazione (e il risarcimento del danno) del lavoratore per licenziamento discriminatorio.
Se il giudizio, permanente, di idoneità parziale alla mansione con limitazioni (misure di restrizione, come ad es. l’indicazione di un orario lavorativo ridotto o del divieto di spostare oggetti superiori ad un determinato peso o, ancora, di compiere determinati movimenti) e prescrizioni (terapie e profilassi come ad es. l’indicazione di determinati strumenti o attrezzature di ausilio e supporto o particolari modalità di comportamento lavorativo, tipo pause o interruzioni), frequentemente utilizzata dai medici competenti, finisce sostanzialmente per individuare i ragionevoli accorgimenti, organizzativi e/o tecnici, che permettono alla persona disabile di conservare il posto di lavoro e non essere discriminata, quello di inidoneità impone, invece, di adibire, ove possibile, il lavoratore a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori (disponendone, se necessario vista l’obbligatorietà della misura, il trasferimento da un’unità produttiva ad un’altra per evidenti ragioni organizzative), garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza.
Siffatta ultima previsione, contenuta all’art. 42 T.U.S.L., costituiva, come noto, una delle principali deroghe al divieto, imposto dall’art. 2103 c.c. nella sua previgente formulazione, di trasferimento del lavoratore a mansioni inferiori, senonché, la riscrittura del dato codicistico disposta dal c.d. “Jobs act” (D. Lgs. 81/2015) ha determinato il venir meno della preclusione in parola.
Il “nuovo” art. 2103 c.c., infatti, contempla oggi sia il trasferimento unilaterale a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore (purché rientranti nella stessa categoria legale), sia (al c. 6) il c.d. “patto di dequalificazione”: accordo, quest’ultimo, da raggiungersi “in sede protetta”, finalizzato a sancire il mutamento peggiorativo delle mansioni e/o della categoria di lavoro, nonché del relativo trattamento retributivo, “nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”.
Alla luce di quanto sopra, occorre, quindi, delineare i rapporti intercorrenti tra la previsione di cui all’art. 42 T.U.S.L. e l’art. 2103 c.c., per comprendere quale norma, tra le due, sia destinata a prevalere qualora il caso concreto sia sussumibile in entrambe le fattispecie astratte.
In altri termini, occorre chiedersi se, una volta formulato il giudizio, permanente, di inidoneità o di idoneità parziale con accomodamenti “irragionevoli” alla specifica mansione da parte del medico competente, debba necessariamente applicarsi la disciplina dell’art. 42 (sicché al lavoratore spetterebbe il trattamento economico previsto per le mansioni di provenienza), ovvero possa procedersi ad un accordo di dequalificazione ex art. 2103, c. 6, c.c. (con conseguente riduzione della retribuzione).
Ebbene, ai fini della questione appena esposta, sembrerebbe invocabile il principio di specialità (per cui lex specialis derogat generali), quale criterio utile alla soluzione delle antinomie normative; principio che condurrebbe all’applicazione della norma speciale (in concreto, quella prevista dal T.U.S.L.) a scapito di quella generale (codicistica), anche se, in un ottica di rinunzia (con transazione) ex art. 2113 c.c., conciliata in sede protetta, pare, nel caso concreto, del tutto ammissibile anche il “patto di dequalificazione” ex art. 2103, c. 6, c.c.
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