Tutto quello a cui avresti dovuto pensare e a cui non hai pensato: il decesso del lavoratore.

Uno dei problemi che si pone nel caso del decesso del dipendente (ma anche in caso di invalidità totale) è quello della sorte del patto di non concorrenza. L’azienda deve pagare il corrispettivo del patto anche in caso di decesso del lavoratore o può ritenerlo risolto non potendosi più avere una concorrenza dell’ex dipendente? Può quindi evitare il pagamento agli eredi, o se già pagato addirittura richiedere il pagamento dei corrispettivi nel frattempo già pagati?
A prima vista la soluzione al quesito parrebbe positiva, il contratto è risolto per impossibilità sopravvenuta e quindi niente sarà dovuto agli eredi essendosi sciolto di diritto. In realtà la questione è assai più complessa. Infatti la limitazione della libertà del dipendete inizia nel momento stesso in cui firma il patto, da quella data infatti non potrà più muoversi liberamente nel mercato del lavoro e la sua agibilità contrattuale sarà automaticamente ridotta, con il conseguente vantaggio per il datore di lavoro di vedere sottratte le sue competenze alla concorrenza.
Il principio è stato più volte affermato dalla giurisprudenza. Si veda per tutte la sentenza della corte d’appello di Bologna del 13 gennaio 2015 ove si legge che “l’obbligo di non concorrenza, seppur operante per il periodo successivo alla fine del rapporto, si perfeziona già con la relativa pattuizione; ciò impedisce al lavoratore di progettare per questa parte il proprio futuro lavorativo e comprime la sua libertà”. Principio affermato dalla corte bolognese è peraltro stato più volte ribadito dalla Cassazione (sezione lavoro 8 gennaio 2013 numero 212)
Ma se con la sottoscrizione nasce il patto che inizia immediatamente a dispiegare i suoi effetti ed i suoi benefici per il datore di lavoro, ancorché il pagamento sia posticipato alla risoluzione del rapporto di lavoro, il decesso del lavoratore, anche solo un giorno dopo la sottoscrizione, non potrà avere effetti sul pagamento del corrispettivo, che sarà comunque dovuto. Infatti il diritto di credito del lavoratore sorge con la stipula del patto e non con la cessazione del rapporto, e ovviamente, si trasferisce agli eredi.
Ovviamente il contratto dovrà ritenersi risolto con la morte del dipendente, ma ciò non farà venire meno il diritto al compenso per il sacrificio subito tra la data della sottoscrizione a quella del decesso. Al massimo potrà ipotizzarsi una richiesta di riduzione dei compenso da parte del datore di lavoro essendo parzialmente venuta meno la prestazione del lavoratore/debitore.
Alla luce di quanto sopra diventa pertanto utile introdurre nel patto di non concorrenza una clausola che consenta una riduzione del compenso pattuito nella ipotesi, pur malaugurata, di decesso del lavoratore.

IL PATTO DI NON CONCORRENZA: IL FATTORE ECONOMICO.

Naturalmente l’aspetto economico, ovvero il costo, è uno degli elementi più “sensibili” nella costruzione di un patto di non concorrenza.
Anche in questo caso, come abbiamo già visto in precedenza, prima di addentarsi nei dettagli tecnici è preferibile fissare alcuni principi di carattere generale che diventano fondamentali per non incorrere poi in grossolani errori.
Premesso che non esistono regole certe o semplici algoritmi da applicare per fissare il corrispettivo, va sottolineato che per essere efficace il patto deve rappresentare un effettivo deterrente, deterrente che si costruisce non solo con la penale, ma anche con il “lucro cessante” e cioè la perdita conseguente alla mancata erogazione del corrispettivo per effetto della violazione del patto, a cui peraltro è legato anche l’ammontare della penale.
Quindi non si può essere micragnosi nel fissare il corrispettivo, perché cosi facendo si rende poco efficace la clausola.
Quanto al momento del pagamento questo può avvenire sia durante che dopo la cessazione del rapporto. Entrambe le soluzioni sono valide, ma hanno un effetto psicologico diverso, con il secondo che acquista un valore deterrente maggiore, anche se in realtà gli effetti sono uguali in quanto se il dipendente viola il patto, deve poi restituire quanto percepito in corso di rapporto. E’ però Importante ricordarsi che in caso di pagamento durante il rapporto si rischia di pagare troppo (se il rapporto è molto lungo) o troppo poco, se, viceversa, il rapporto cessa immediatamente, tanto che è preferibile aggiungere, per tutelarsi in questo ultimo caso, una clausola che garantisca un importo minimo.
Quanto agli aspetti fiscali connessi al momento del pagamento le regole sono le seguenti: se il corrispettivo è erogato durante rapporto di lavoro è soggetto a tassazione ordinaria e a contribuzione, mentre se è erogato dopo la cessazione del rapporto, ma era stato previsto da accordi stipulati prima della stessa, come di solito avviene, si paga sempre la contribuzione. ma la somma è soggetta a tassazione separata. E ciò sia che il pagamento avvenga ratealmente o in una soluzione contestualmente al recesso. Diverso il caso in cui l’accordo è raggiunto dopo la cessazione del rapporto, e quindi anche il compenso è erogato successivamente. In questo caso infatti si procederà con la tassazione separata, ma senza che sia soggetto a contribuzione. Come si vede quindi le due soluzioni più comuni non comportano differenze sostanziali né per l’azienda né per il dipendente sotto un profilo fiscale e contributivo.
Vale la pena ricordare infine che se si prevede un pagamento alla fine del rapporto è bene commisurarlo in misura percentuale alla ultima retribuzione e non in cifra fissa per evitare che nel corso del tempo si svaluti in moda tale da renderlo inefficace e che nella retribuzione di riferimento si deve tenere conto anche delle provvigioni o di eventuali bonus aventi carattere obbligatorio e continuativo.

Il patto di non concorrenza: ulteriori riflessioni.

Il patto di non concorrenza soggiace a precise regole di validità. Il patto infatti deve essere limitato per durata ed area di operatività e deve essere remunerato.
La legge però non fissa dei criteri precisi (fatto salvo per la durata che non puo superare i 3 anni ) e la definizione dei limiti di azione è lasciata alle parti.
Per poter operare correttamente è quindi necessario capire la logica sottostante alla norma: non si può imporre ad un lavoratore di restare totalmente inoperoso ed impedirgli di lavorare, anche se questo sacrificio è concordato e pagato in modo adeguato, neppure se il corrispettivo fosse, per assurdo, superiore all`ultimo stipendio. E la ragione è che non è nell´interesse della collettività togliere dal mercato la professionalità e le capacità di un lavoratore per garantire gli interessi di una singola impresa. La libera circolazione delle forze produttive e delle “menti” non può essere sacrificata all’interesse del singolo.
Una volta comprese le ragioni del legislatore e  ciò che sta dietro la norma, diventa più semplice andare a definire quelli che sono i limiti del patto e come possa essere costruito in modo tale da essere conforme alla legislazione vigente ( che peraltro è più o meno simile in tutte le nazioni europee). I fattori da prendere in considerazione sono quindi molti, ma è fondamentale partire dal principio di proporzionalità e di interrelazione fra tutti gli elementi del patto. Un esempio può essere utile a chiarire il concetto:  tanto maggiore l`area tanto minore il periodo, più lungo il periodo di operatività del divieto, tanto maggiore il corrispettivo.
Ma vediamo quali sono gli elementi da prendere in considerazione. In primis l`area di attività dell`azienda, il che significa la sua ampiezza, la sua specificità, il numero di concorrenti. Poi il mercato, ovvero dove e a chi sono destinati i prodotti, quindi, e questo è qualcosa che spesso si tende a dimenticare, deve essere tenuta in debita considerazione la personalità del lavoratore, intendendosi per tale il suo background culturale, la sua professionalità attuale e pregressa, le mansioni svolte. Parlare di un ricercatore nel campo delle biotecnologie non è la stessa cosa che prevedere un patto per un direttore delle risorse umane. Quest`ultimo infatti può infatti trovare facilmente occupazione, fatta salva qualche speciale eccezione, in un azienda di qualsivoglia settore, mentre il tecnico specialista avrà a propria disposizione una limitata offerta, non potendosi certo riciclare nel settore metalmeccanico o nell`information technology. Ma ovviamente contano anche fattori quali la conoscenza delle lingue o precedenti esperienze internazionali per delimitare  l`area o il settore merceologico.
Infine non si deve dimenticare che il legislatore vuole che il patto sia remunerato per compensare il sacrificio imposto al lavoratore e che tale remunerzione, come detto, sia ragionevole e proporzionata. Questo comporta che non siano possibili scorciatoie, non si potrà quindi avere un compenso simbolico  o pensare di introdurre clausole “scappatoia”, quali quelle che consentono ad una delle parti di liberarsi dell`impegno a propria discrezione, magari quando il risultato è già stato raggiunto, per esempio perché  le informazioni che si pensava di dover proteggere non sono più di interesse, o perché il lavoratore ha comunicato di andare a lavorare in un’azienda non in concorrenza.
In ogni caso, avendo come stella polare la ratio legis, non è impossibile realizzare un patto di concorrenza valido e, sopratutto efficace, in particolare se si tengono a mente le seguenti regole di fondo:

  1. Un patto di non concorrenza non può essere costruito in modo tale da impedire al dependente di trovare una nuova occupazione
  2. Deve esistere un equilibrio tra area, durata  e remunerazione, I tre fattori devono essere tra loro proporzionalmente incrociati e modificati
  3. Oltre all’azienda bisogna prendere in considerazione il lavoratore, la sua professionalità attuale e pregressa.
  4. Non esistono scorciatoie nella costruzione del patto e un equo compenso deve essere sempre pagato, non essendo possibile ottenere risultati a costo zero.

IL PATTO DI NON CONCORRENZA: LE REGOLE PER AVERE UNA PROTEZIONE EFFICACE.

La tutela del patrimonio aziendale è uno dei principali obiettivi di ogni imprenditore. Non solo dei beni materiali, i beni cosiddetti immateriali hanno altrettanto, se non maggior valore. Segreti industriali, informazioni commerciali, software hanno rappresentano spesso un valore superiore a quello dei beni fisici.
E’ ovvio perciò che molte aziende cerchino gli strumenti per proteggere questo patrimonio. Il patto di non concorrenza è una delle possibilità a cui l’imprenditore può ricorrere. Oggi peraltro è uno strumento particolarmente popolare, ma d’altronde anche nel campo giuridico, come in ogni altro campo: dal cibo all’abbigliamento, dalle auto ai viaggi, la moda e le tendenze la fanno da padrone.
Ma come per la moda esiste l’hautecouture e le sfilate dei grandi stilisti e, d’altra parte, le borse falsificate, così per il patto di non concorrenza si rischia di avere un prodotto di scarto e inutile, se non ci si attrezza in modo adeguato per avere una clausola limitativa della concorrenza effettivamente efficace. Per questo vanno seguite poche, ma determinanti regole.
Innanzitutto deve essere sottolineato che lo scopo del patto è sostanzialmente quello di impedire che il dipendente si trasferisca da un concorrente, portando con se quel bagaglio di conoscenze e soprattutto informazioni acquisite nel corso del rapporto di lavoro.
Come prima regola bisogna quindi tenere presente che il patto di non concorrenza non è utile ed efficace in se, ma lo è in funzione dell’obiettivo che si vuole proteggere. Si deve perciò effettuare una precisa analisi di “quale pericolo“ rappresenterebbe “quel” dipendente quando se ne dovesse andare, per capire se effettivamente il pericolo c’è e se il patto di non concorrenza è lo strumento giusto, o non esistano alternative altrettanto se non più valide.
Da questa premessa discende l’ovvio corollario che non esiste “il patto di non concorrenza “ma esistono tanti patti, ognuno dei quali deve essere adeguato all’obiettivo perseguito e anche, se non forse soprattutto, alla professionalità e alla personalità del lavoratore . E che non sempre il suo know how o le informazioni che detiene, per quanto importanti, sono esportabili alla concorrenza e rendono per questo necessario limitare la trasferibilità.
Deve essere inoltre sempre rammentato che la clausola è un “patto” e come tale coinvolge almeno due parti con tutto quello che ne consegue, in primis il fatto che ogni modifica deve passare da un accordo di entrambi i contraenti, e che sono soggetti a limitazioni. E non esistono scappatoie
Si tratta poi di un accordo oneroso. Questo vuol dire non solo che non è possibile ottenere una protezione a costo zero, come è ben noto, ma che la protezione che si ottiene è direttamente proporzionale al costo sostenuto. Pertanto, un patto sottopagato è un patto poco efficace.
Inoltre bisogna evitare la sindrome del piccione che attanaglia i cani quando vengono portati in una grande piazza cittadina: iniziano ad inseguire tutti gli uccelli presenti e finiscono la loro passeggiata stremati a leccare la base della fontanella dell’acqua senza averne acchiappato uno. Il patto di non concorrenza deve essere stipulato solo dove e per chi davvero serve, evitando di estenderlo a tutta la platea dei dipendenti.
Quindi provando a riassumere le regole auree per avere una buona protezione contro la concorrenza dell’ex dipendente:

  1. Individuare le aree e le informazioni chiave che effettivamente meritano di essere protette
  2. Individuare i dipendenti che sono portatori di informazioni e know how davvero sensibili ed esportabili.
  3. Verificare se il patto di non concorrenza è effettivamente lo strumento più adatto a proteggere gli interessi aziendali
  4. Non ricorrere a clausole standard (clausole google) ma personalizzare le clausole in funzione dei soggetti e dei beni coinvolti
  5. Non cercare escamotage per risparmiare perché potrebbero compromettere l’efficacia dello strumento.

contribuzione sul patto di non concorrenza.

Il patto di non concorrenza , o per meglio dire, il suo corrispettivo entra a far parte della retribuzione imponibile ed è soggetto a contribuzione o no? E’ una domanda che viene posta molto spesso, specie quando il patto di non concorrenza è erogato al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
Si tratta di un emolumento erogato a favore del dipendente per obbligo di non facere che rientra nella nozione di retribuzione, secondo l’ampia definizione fornita dal TUIR  che così recita:” Il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro.”  Quindi i compensi erogati in costanza del rapporto di lavoro sono da assoggettare al prelievo IRPEF ordinario mentre sono soggetti a tassazione separata i compensi erogati all’atto o successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro sia che ciò avvenga in unica soluzione o a rate (si applica la stessa aliquota di tassazione utilizzata per il TFR).
Il problema vero si pone però sulla contribuzione: deve essere assoggettato a contribuzione o meno? Se nel primo caso, non ci sono dubbi qualcuno, viceversa,  sostiene che si possa evitare la assoggettabilità a contribuzione pagando quando il rapporto è risolto. La risposta è però errata in quanto il momento del pagamento non muta la natura dell’emolumento che resta sempre pagato in  relazione al rapporto di lavoro e quindi costituisce reddito imponibile INPS: del resto nessuno ha mai sostenuto che le retribuzioni arretrate pagate dopo la cessazione dei rapporto non fossero soggette a contribuzione.
E in tal senso si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza  16489/2009 “ A tale nozione [determinazione del reddito da lavoro dipendente a fini contributivi] va pertanto anche oggi ricondotto, in quanto erogato in dipendenza della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato – ancorchè per una obbligazione di non facere da adempiere nel tempo successivo alla sua cessazione – e in funzione di compenso a fronte delle limitazioni lavorative per tale tempo convenute, anche il corrispettivo del patto di non concorrenza, non rilevando infine, ai fini indicati, se lo stesso venga erogato in costanza di rapporto di lavoro, quale quota o parte della retribuzione periodica (su cui cfr. Cass. 4 aprile 1991 n. 3507, cit. e 20 luglio 1983 n. 5014) oppure al termine o dopo la cessazione del rapporto di lavoro (ad es. periodicamente per la durata dell’obbligazione di non facere).
Come fare dunque per ridurre l’impatto del costo contributivo in sede di transazione? Non vi è altra soluzione che ridurre il più possibile l’ammontare del corrispettivo del patto senza per questo ridurre la penale, e poi, se si è disposti a correre un rischio maggiore, si può pensare a stipulare il patto di non concorrenza dopo che il rapporto è cessato (e quindi questa opzione non può funzionare se il patto era stato stipulato all’inizio o durante il rapporto) sulla base del presupposto che si tratterebbe di un impegno svincolato dal rapporto di lavoro.

ELLINT – NON COMPETITION COVENANTS.

Non-Competition Covenants (NCC), also often referred to as Covenant Not To Compete (CNC), are a basic staple of many standard employment agreements. Their aim is to prevent employees from leaving and going to work for competitors (or starting up a competing business) where they may reveal, steal, or exploit confidential trade secrets and know-how in addition to luring away clients and other important professionals for the business in the process.
However, despite a signed and quite straight forward black and white agreement – (former) employees continue to challenge their (former) employers on this front. The blame though is not always with the employee … there are also companies which try to lure valuable employees away in order to gain a competitive advantage. In such instances they will work to find ways to wriggle their new hires out of any restrictions put on them by their former employers. Moreover, employees are frequently transferred abroad in the globalized market and the NCC may not be enforceable in the destination country, making the protection of the employer’s legitimate business interests more complex and difficult.
How can a company truly protect its legitimate business interests if the rules are flouted by both employees and competitors ?
MORE

Posted in Senza categoriaTagged

ELLINT: NON COMPETITION COVENANTS.

Non-Competition Covenants (NCC), also often referred to as Covenant Not To Compete (CNC), are a basic staple of many standard employment agreements. Their aim is to prevent employees from leaving and going to work for competitors (or starting up a competing business) where they may reveal, steal, or exploit confidential trade secrets and know-how in addition to luring away clients and other important professionals for the business in the process.
However, despite a signed and quite straight forward black and white agreement – (former) employees continue to challenge their (former) employers on this front. The blame though is not always with the employee … there are also companies which try to lure valuable employees away in order to gain a competitive advantage. In such instances they will work to find ways to wriggle their new hires out of any restrictions put on them by their former employers. Moreover, employees are frequently transferred abroad in the globalized market and the NCC may not be enforceable in the destination country, making the protection of the employer’s legitimate business interests more complex and difficult.
How can a company truly protect its legitimate business interests if the rules are flouted by both employees and competitors ?
Find out more on the PDF