Pagamenti successivi alla fine del rapporto di lavoro: Normativa italiana e danese

I dipendenti possono avere diritto a determinati pagamenti anche dopo la fine del rapporto di lavoro. Le indennità di licenziamento, l’indennizzo per le clausole restrittive e la liquidazione finale delle ferie sono tutti esempi di pagamenti dovuti al termine di un rapporto di lavoro o dopo la cessazione dello stesso e spesso è fondamentale che il datore di lavoro abbia preso in considerazione tali pagamenti quando ha deciso di porre fine a un rapporto di lavoro.

La nostra Chiara D’Angelo e Mads Bernstorn dello studio legale danese Mette Klingsten Advokatfirma forniscono in un articolo completo una panoramica di alcuni dei pagamenti post-lavorativi più comuni in Italia e in Danimarca.

L’articolo completo è disponibile qui.

Successful LGBT in Action – Dalla discriminazione silenziosa all’inclusione coraggiosa.

E’ il titolo del workshop organizzato con l’obiettivo di dare vita a un confronto fra esperti giuslavoristi, docenti universitari, psicologi del lavoro e testimonial aziendali sui modi per rendere inclusiva e valorizzante la Diversity legata alle persone LGBT.
L’incontro, frutto della collaborazione tra Parks Liberi e Uguali e GSO Company, si svolgerà il
25 gennaio 
ore  9.00 – 16.00 
Microsoft House 
Viale Pasubio 21, Milano
L’avv. Giulietta Bergamaschi, giuslavorista ed esperta di tematiche di inclusione nel mondo del lavoro, prenderà parte all’incontro con un intervento dal titolo L’attuale quadro normativo in Italia.
Programma

9:00 – 9:30 Registrazione partecipanti e welcome coffee
9:30 – 9:45
Apertura lavori: il filo rosso della Diversity.
Simona Alini – Diversity & Inclusion, GSO Company
9:45 – 10:15
Lavoro e inclusione LGBT: le sfide e le opportunità
Igor Suran – Direttore Esecutivo, Parks – Liberi e Uguali
10:15 – 10:30
L’attuale quadro normativo in Italia
Giulietta Bergamaschi – Avv. GiuslavoristaStudio legale Lexellent
10:30 – 12:00
LGBT in Action: creare un contesto organizzativo inclusivo
Intervengono:

  • Francesco Bianco – Regional HR Director Europe, Vodafone Group
  • Doriana De Benedictis – Diversity Engagement Partner, IBM Italia
  • Pino Mercuri – HR Director, Microsoft Italia
  • Patrizia Mezzadra – HR Management and Development specialist, Deutsche Bank Italia
  • Anna Nozza – Head of HR Technology, Vodafone Italia

Modera: Simona Alini

12:00 – 12:15 Coffee break
12:15 – 12:30
Il processo di adozione di pratiche inclusive rivolte ai lavoratori LGBT
Presentazione della ricerca condotta da Simone Pulcher –  NASP PhD candidate e ricercatore presso l’Università Statale di Milano
Modera: Igor Suran
12:30 – 13:30
Diversità LGBT: le ricerche, le metodologie e le prassi in atto
Intervengono:

  • Silvia De Simone – Psicologa del Lavoro, Università degli studi di Cagliari
  • Riccardo Sartori – Psicologo del Lavoro e ricercatore, Università degli Studi di Verona e autore di test per Utilia
  • Cristina Tajani – Assessore alle Politiche del Lavoro, Comune di Milano

Modera: Elena Tebano – La 27esimaora, Corriere della Sera

13:30 – 14:15 Light lunch
LGBT Labs
14:15 – 14:30 Organizzazione e lancio dei lavori di gruppo
14:30 – 15:30 Laboratori per sperimentare metodologie di Engagement, Change Management culturale, ascolto e valorizzazione.
15:30 – 16:00 Presentazione dei risultati e chiusura dei lavori

Per iscrizioni.

Non discriminare non è una cortesia è un obbligo.

Valgono le competenze e non le caratteristiche del candidato! Lo dice la logica e lo dicono le norme. Non si può selezionare una persona rispetto al sesso, all’età, all’orientamento sessuale, allo stato di salute e alle convinzioni politiche e religiose.

È di pochi giorni fa una inserzione in cui in sfregio al diritto ci si riferisce al sesso e alla presenza fisica della candidata ideale. Al di là di ogni polemica e nella consapevolezza che a volte si discrimina senza quasi neppure accorgersene, tanto pregiudizi e abiti mentali sono profondamente radicati in noi, crediamo sia necessario tenere alta l’attenzione e segnalare eventuali comportamenti scorretti tanto più se vi è tutta una normativa che si frappone fra il nostro punto di vista e il comportamento corretto.

Per dare il giusto peso a quanto è successo, e avviene ogni giorno, ho chiesto all’avvocata Giulietta Bergamaschi di ricordarci le norme che tutelano le pari opportunità nel momento dell’ingresso nel mondo del lavoro. Propongo anche un tag per chi desiderasse estendere l’informazione #altrocheDonnaBellaPresenza

Il principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone del settore pubblico e privato con riferimento, fra l’altro, all’accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione (art. 3 comma I lett. a) del D.lgs. 216/2003.

Per quanto riguarda il fattore discriminante del genere, la parità di accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma, o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e i criteri di assunzione, è garantita, fra gli altri, dall’art. 27 del D.lgs. 198/2006 (Codice delle Pari Opportunità). Il Codice vieta la discriminazione diretta attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, e la discriminazione indiretta attraverso meccanismi di preselezione ovvero a mezzo stampa o con qualsiasi altra forma pubblicitaria che indichi come requisito professionale l’appartenenza all’uno o all’altro sesso.

Fanno eccezione i casi in cui l’appartenenza all’uno o altro sesso costituisca requisito essenziale per la natura del lavoro o della prestazione. È il caso per esempio dei lavori nella moda. Se ho bisogno che si indossi un abito femminile selezionerò una modella così come ricercherò una mamma e non un papà volessi promuovere un prodotto indirizzato alla peculiarità specifica di una donna madre (e non rivolto quindi a un genitore).

Per quanto riguarda il rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza nell’ambito del rapporto di lavoro, non costituiscono atti di discriminazione le differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione/convinzioni personali/handicap/età/orientamento sessuale, qualora per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata costituiscano un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività (art. 3 comma III D.lgs. 2016/2003).

Corretto quindi che per una fiera di calzature da donna si ricerchi una hostess che indossi la taglia di scarpe 37 ma non che abbia i capelli liberi e non coperti da un velo. Lo stesso che invece sarebbe pregiudiziale nel caso la modella promuovesse uno shampoo. Vi è poi un altro aspetto importante da sottolineare. Chi cade in un comportamento discriminatorio è responsabile e non può appellarsi al fatto di non essersene accorto. La discriminazione ha infatti natura oggettiva e non rileva la dimensione soggettiva.

Il diritto antidiscriminatorio guarda esclusivamente all’effetto del trattamento, al suo verificarsi prettamente oggettivo: è irrilevante per la Cassazione il profilo soggettivo dell’intento dell’agente perché «la discriminazione opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro» (Cass. Civ., Sez. Lav., 5 aprile 2016, n. 6575).

Link alla pagina della 27° Ora del Corriere.

La ciclista sfortunata: paralleli nel diritto del lavoro.

La recente vicenda della ciclista che ha mostrato il dito (“flipped the bird”) al presidente Trump, ha avuto interessanti sviluppi sul piano lavorativo. La ciclista infatti è stata licenziata dal datore di lavoro in base alla considerazione che aveva pubblicato oscenità sui social media e ciò contravvenendo alle precise policy aziendali in vigore, il cui controllo, ironia della sorte, rientrava fra i compiti della lavoratrice. Inoltre, ha sostenuto l’azienda, la foto avrebbe potuto mettere a repentaglio la propria reputazione, nonostante non vi fosse alcun elemento, sul profilo della lavoratrice, che potesse creare una correlazione con il datore di lavoro. Il cui nome, come prevedibile, è uscito sulle prime pagine di tutti i giornali solo dopo, e a causa, del licenziamento.
La questione è ovviamente molto interessante e potrebbe tranquillamente essere esportata nel nostro ordinamento: sarebbe legittimo un licenziamento di questo tipo in Italia? La risposta sarebbe molto probabilmente negativa a meno che l’azienda non abbia una chiara policy sull’uso dei social media che vieti comportamenti di questo tipo, ma in ogni caso la mancanza di correlazione fra dipendente ed azienda potrebbe comunque renderla inutile. Inoltre il lavoratore potrebbe invocare il diritto di critica e di espressione delle proprie idee politiche, in ciò ben supportato dalla Costituzione.
E’ interessante notare come il principio della libertà di opinione non costituisca una protezione negli Usa, a differenza di quello che comunemente si crede. Infatti il primo emendamento della Costituzione americana («Il Congresso non promulgherà leggi …che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea ….») esclude la punibilità per aver espresso la propria opinione, ma la garanzia non si estende al settore privato. Con la conseguenza che un imprenditore può licenziare quale reazione a espressioni del pensiero non gradite. Il principio per cui “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (art 21 Costituzione Italiana) non si applica quindi nelle aziende del paese più libero del mondo.
Alternativamente il lavoratore potrebbe sostenere che il gesto, certo non educato, non costituisce un’oscenità che possa portare al licenziamento, in un contesto, come quello italiano, dove vige una considerevole libertà di linguaggio. Ciò specie laddove comportamenti o linguaggi simili avessero trovato nel passato una tacita approvazione o non fossero stati contrastati dall’imprenditore, ad esempio con provvedimenti disciplinari o altre idonee misure. E si tratta proprio di una delle obiezioni sollevate dalla sfortunata ciclista: in passato un manager delle società aveva pubblicato espressioni come “fuxx…bastxxx” senza per questo essere licenziato, nonostante dal profilo Facebook fosse possibile identificarlo come dipendente dell’azienda.
A Ms Briskman resta però aperta anche che la strada della discriminazione: la policy che ha portato al suo licenziamento può essere considerata equa da un punto di vista dell’etnia, della religione, del genere? E in ogni caso, ne è stata data un’applicazione neutra e non discriminatoria? Se la risposta fosse negativa il licenziamento sarebbe illegittimo con conseguente liquidazione dei danni a favore della lavoratrice.

Il candidato ideale di uno studio legale.

Quali sono le caratteristiche imprescindibili per un candidato ideale di uno studio legale?  Ne parla  l’avv. Barozzi in un’intervista apparsa su lawtalks.it, il primo video magazine per avvocati e imprese.
Il capitale umano oggi è l’elemento che fa la differenza in uno studio, soprattutto in un posto come Lexellent dove vige anche la clausola No Excellence No Fee, se il cliente non è soddisfatto della prestazione del proprio referente non deve pagare la prestazione.
Per vedere il video per esteso e conoscere i 4 must, ecco il link.
 

Ciclista americana licenziata per il dito medio a Trump. In Italia decisione probabilmente non legittima.

La recente vicenda della ciclista che ha mostrato il dito (“flipped the bird”) al presidente Trump, ha avuto interessanti sviluppi sul piano lavorativo. La ciclista, infatti, è stata licenziata dal datore di lavoro in base alla considerazione che aveva pubblicato oscenità sui social media e ciò contravvenendo alle precise policy aziendali in vigore, il cui controllo, ironia della sorte, rientrava fra i compiti della lavoratrice. Inoltre, ha sostenuto l’azienda, la foto avrebbe potuto mettere a repentaglio la propria reputazione, nonostante non vi fosse alcun elemento, sul profilo della lavoratrice, che potesse creare una correlazione con il datore di lavoro. Il cui nome, come prevedibile, è uscito sulle prime pagine di tutti i giornali solo dopo, e a causa, del licenziamento.

La questione è ovviamente molto interessante e potrebbe tranquillamente essere esportata nel nostro ordinamento: sarebbe legittimo un licenziamento di questo tipo in Italia? La risposta sarebbe molto probabilmente negativa a meno che l’azienda non abbia un achiara policy sull’uso dei social media che vieti comportamenti di questo tipo, ma in ogni caso la mancanza di correlazione fra dipendente ed azienda potrebbe comunque renderla inutile. Inoltre il lavoratore potrebbe invocare il diritto di critica e di espressione delle proprie idee politiche, in ciò ben supportato dalla Costituzione.

E’ interessante notare come il principio della libertà di opinione non costituisca una protezione negli Usa, a differenza di quello che comunemente si crede.

Infatti il primo emendamento della Costituzione americana («Il Congresso non promulgherà leggi …che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea ….») esclude la punibilità per aver espresso la propria opinione, ma la garanzia non si estende al settore privato. Con la conseguenza che un imprenditore può licenziare quale reazione a espressioni del pensiero non gradite. Il principio per cui “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (art 21 Costituzione Italiana) non si applica quindi nelle aziende del paese più libero del mondo.

Alternativamente il lavoratore potrebbe sostenere che il gesto, certo non educato, non costituisce un’oscenità che possa portare al licenziamento, in un contesto, come quello italiano, dove vige una considerevole libertà di linguaggio. Ciò specie laddove comportamenti o linguaggi simili avessero trovato nel passato una tacita approvazione o non fossero stati contrastati dall’imprenditore, ad esempio con provvedimenti disciplinari o altre idonee misure.

E si tratta proprio di una delle obiezioni sollevate dalla sfortunata ciclista: in passato un manager delle società aveva pubblicato espressioni come “fuxx…bastxxx” senza per questo essere licenziato, nonostante dal profilo Facebook fosse possibile identificarlo come dipendente dell’azienda.

A Ms Briskman resta però aperta anche che la strada della discriminazione: la policy che ha portato al suo licenziamento può essere considerata equa da un punto di vista dell’etnia, della religione, del genere?

E in ogni caso, ne è stata data un’applicazione neutra e non discriminatoria? Se la risposta fosse negativa il licenziamento sarebbe illegittimo con conseguente liquidazione dei danni a favore della lavoratrice.

La ciclista sfortunata: paralleli nel diritto del lavoro.

La recente vicenda della ciclista che ha mostrato il dito (“flipped the bird”) al presidente Trump, ha avuto interessanti sviluppi sul piano lavorativo. La ciclista infatti è stata licenziata dal datore di lavoro in base alla considerazione che aveva pubblicato oscenità sui social media e ciò contravvenendo alle precise policy aziendali in vigore, il cui controllo, ironia della sorte, rientrava fra i compiti della lavoratrice.

Inoltre, ha sostenuto l’azienda, la foto avrebbe potuto mettere a repentaglio la propria reputazione, nonostante non vi fosse alcun elemento, sul profilo della lavoratrice, che potesse creare una correlazione con il datore di lavoro. Il cui nome, come prevedibile, è uscito sulle prime pagine di tutti i giornali solo dopo, e a causa, del licenziamento.

La questione è ovviamente molto interessante e potrebbe tranquillamente essere esportata nel nostro ordinamento: sarebbe legittimo un licenziamento di questo tipo in Italia? La risposta sarebbe molto probabilmente negativa a meno che l’azienda non abbia una chiara policy sull’uso dei social media che vieti comportamenti di questo tipo, ma in ogni caso la mancanza di correlazione fra dipendente ed azienda potrebbe comunque renderla inutile. Inoltre il lavoratore potrebbe invocare il diritto di critica e di espressione delle proprie idee politiche, in ciò ben supportato dalla Costituzione.

E’ interessante notare come il principio della libertà di opinione non costituisca una protezione negli Usa, a differenza di quello che comunemente si crede.

Infatti il primo emendamento della Costituzione americana («Il Congresso non promulgherà leggi …che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea ….») esclude la punibilità per aver espresso la propria opinione, ma la garanzia non si estende al settore privato. Con la conseguenza che un imprenditore può licenziare quale reazione a espressioni del pensiero non gradite. Il principio per cui “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (art 21 Costituzione Italiana) non si applica quindi nelle aziende del paese più libero del mondo.

Alternativamente il lavoratore potrebbe sostenere che il gesto, certo non educato, non costituisce un’oscenità che possa portare al licenziamento, in un contesto, come quello italiano, dove vige una considerevole libertà di linguaggio. Ciò specie laddove comportamenti o linguaggi simili avessero trovato nel passato una tacita approvazione o non fossero stati contrastati dall’imprenditore, ad esempio con provvedimenti disciplinari o altre idonee misure.

E si tratta proprio di una delle obiezioni sollevate dalla sfortunata ciclista: in passato un manager delle società aveva pubblicato espressioni come “fuxx…bastxxx” senza per questo essere licenziato, nonostante dal profilo Facebook fosse possibile identificarlo come dipendente dell’azienda.

A Ms Briskman resta però aperta anche che la strada della discriminazione: la policy che ha portato al suo licenziamento può essere considerata equa da un punto di vista dell’etnia, della religione, del genere?

E in ogni caso, ne è stata data un’applicazione neutra e non discriminatoria? Se la risposta fosse negativa il licenziamento sarebbe illegittimo con conseguente liquidazione dei danni a favore della lavoratrice.

Immagine aziendale e libertà individuale: come renderle coerenti.

La definizione di immagine è abbastanza semplice: “Un’immagine è una rappresentazione visiva, non solida, della realtà. In particolare un’immagine può rappresentare la realtà fisica oppure una realtà fittizia  o astratta.[(Wikipedia)
Quella di Wikipedia è una definizione corretta, ma che potremmo definire analogica in quello che ormai è un mondo digitale. Oggi il termine immagine ha assunto una valenza del tutto diversa. Nel mondo contemporaneo, fatto di social media, di Internet, di marketing, l’immagine è molto di più che una semplice rappresentazione visiva della realtà.
In realtà oggi quando un’azienda, ma anche un singolo, parla di immagine intende quello che gli anglosassoni definiscono come un “intangibile asset” e che noi chiamiamo  il “capitale intellettuale”, che per l’azienda è ”principalmente costituito da elementi (come la qualità del personale o la reputazione del marchio presso i consumatori) per i quali non sono dati metodi universalmente riconosciuti per la loro valutazione monetaria. (Wikipedia)” ma il cui valore è spesso superiore a quello dei beni materiali o finanziari.
In un contesto come questo diventa allora fondamentale capire che cosa è davvero l’immagine da un punto di vista giuridico, chi ne è titolare, chi può utilizzarla.
Se non si risponde a queste domande fondamentali non si può capire per esempio fino a che punto un datore di lavoro può imporre ai suoi dipendenti comportamenti che siano compatibili con la propria immagine, fino a che punto l’immagine del lavoratore può essere utilizzata dal datore di lavoro per accrescere il proprio capitale intellettuale o viceversa possa entrare in conflitto con i suoi interessi e cioè  svilupparsi ed estrinsecarsi liberamente anche qualora ciò possa creare nocumento all’azienda dalla quale è retribuito.
Anni fa quando si è cominciato a parlare di social network il problema per i responsabili risorse umane era quello di limitarne l’uso in quanto il loro utilizzo disturbava o pregiudicare l’attività lavorativa, di verificare quali fossero i contenuti per prevenire o reprimere linguaggi offensivi o più semplicemente sconvenienti nei confronti del datore di lavoro o dei collegi.
Oggi il problema si pone in modo del tutto diverso: la questione è quella del fino a che punto libertà di espressione del dipendente possa esprimersi quando entra in contrasto con l’immagine aziendale. Nel mondo del marketing collaborativo il ruolo dei dipendenti assume una funzione cruciale, che non può essere affrontata senza strumenti idonei e senza avere chiaro il quadro legislativo all’interno del quale ci si muove.
Un esempio può aiutare ad inquadrare il problema. Un’azienda che imposta la propria campagna marketing su valori etici quali la riduzione dei consumi energetici, o la valorizzazione della diversità, può convivere con un gruppo di propri dirigenti che faccia campagna contro la raccolta differenziata o a favore dell’uso del carbone per la produzione di energia elettrica, o ancora sia parte attiva di un movimento contro l’immigrazione o per la chiusura delle frontiere? È evidente che si tratta di una questione molto complessa nella quale entrano in gioco, da ambo le parti, valori fondamentali, apparentemente intangibili, da ma che in realtà hanno una notevole valenza economica da una parte, e morale dall’altra.
Si tratta di problemi che però devono essere affrontati in modo cosciente e fin dall’inizio, e le parti del rapporto di lavoro devono mettere in chiaro quali sono i reciproci obblighi e diritti. Non solo una policy aziendale, ma anche il contratto individuale diventa quindi lo strumento per poter regolamentare una materia così delicata e nello stesso tempo di fondamentale importanza.
Di tutto questo parleremo il 25 maggio nel corso del seminario organizzato presso il nostro studio.
Per iscriversi.

L’attività lavorativa ora sotto il controllo di una nuova App.

Ieri 13 Aprile la Cisl ha lanciato una App per dispositivi Android il cui scopo è quello di fornire ai lavoratori uno strumento per registrare la loro attività lavorativa (http://bit.ly/2obTfMy). Non casuale il nome dell’applicazione: Strajob, a significare l’intenzione di fornire ai lavoratori uno mezzo che consenta loro di ottenere il corretto pagamento della retribuzione ed in particolare dello straordinario. Scaricata e provata, l’App non dimostra di avere un gran che di straordinario, si può dire che non sia molto di più di un normale blocco degli appunti su cui registrare la propria attività lavorativa.
Sono però evidenti le potenzialità dello strumento, probabilmente ancora in fase di sperimentazione come chiarito nello stesso sito, e perciò la notizia non può essere trattata come una semplice curiosità, poiché quantomeno segnala un rilevante cambiamento culturale.
Le  Organizzazioni Sindacali, che fino ad ora avevano dipinto le nuove tecnologie come il lupo cattivo, si pensi alla battaglia contro la riforma dell’articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori in occasione del Jobs Act, fanno ora di quegli strumenti un’arma a disposizione dei lavoratori contro l’imprenditore. Notevoli le potenzialità che si intravedono nel momento in cui l’applicazione diventerà più evoluta: dalla facilità che il lavoratore potrebbe avere nel registrare in automatico il proprio tempo e luogo di lavoro, giorno per giorno ed ora per ora, consentendogli di fornire facilmente la prova del lavoro straordinario, o delle trasferte, o le ore passate da un cliente; o anche, solo se il GPS diventerà più evoluto, la tracciatura dei movimenti all’interno del luogo di lavoro a prova della diligenza nell’esecuzione della prestazione; o l’archiviazione delle foto, debitamente taggate e linkate al luogo, che comprovano eventuali mobbing o altri comportamenti vessatori; la registrazione di conversazioni, o l’archiviazione delle email importanti, il tutto confezionato e pronto per essere sciorinato di fronte ad un giudice. E questi potrebbero essere i primi passi di ulteriori sviluppi che non possiamo escludere siano all’orizzonte, nel momento in cui anche i sindacati entrano a pieno titolo nel 21° secolo.
Dal punto di vista delle aziende questa novità rappresenta una sfida, come succede per tutte le innovazioni tecnologiche che inevitabilmente impongono di aggiornare il proprio modo di operare e l’organizzazione aziendale. La prima questione che viene in evidenza è quella della possibilità per l’azienda di vietare l’utilizzo di un’applicazione di questo tipo sui device aziendali, o se viceversa tale decisione possa costituire comportamento antisindacale. Il problema naturalmente non si pone se sugli strumenti aziendali è vietata l’installazione di qualsiasi applicativo che non sia di proprietà o di provenienza dell’azienda stessa (come sarebbe consigliabile imporre), ma quando invece un dispositivo può essere utilizzato a fini personali, anche installando applicativi personali, la situazione può cambiare radicalmente.
E che ne è dei dati registrati quando il telefono ritorna all’azienda? Li potrà usare contro il lavoratore?
Peraltro se l’azienda non si è adeguata alla normativa dell’art. 4 SdL e non si è dotata di policy per l’utilizzo dei dati raccolti a distanza si potrebbe arrivare al punto che il lavoratore usi gli strumenti di lavoro per difendersi o portare l’azienda davanti al giudice, mentre l’azienda non li può utilizzare a fini disciplinari.
Si ripropone quindi con forza la necessità di avere in essere policy aziendali che regolamentino l’uso degli strumenti informatici forniti dall’azienda per svolgere la prestazione lavorativa, policy che però siano costruite ad hoc per le proprie esigenze, e pensate in modo consapevole tenendo conto di tutte le varie problematiche che possono derivare da strumenti così potenti, che potrebbero rivelarsi anche armi a doppio taglio.

A CIASCUNO IL SUO. LE INTERAZIONI TRA LA GESTIONE DEL PERSONALE E LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO.

Il quinto appuntamento del percorso di Lexellent dedicato ai responsabili delle Risorse Umane è tenuto dal Prof. Francesco Bacchini, of counsel Lexellent e dall’Avv. Hulla Bisonni, associate Lexellent con introduzione dell’Avv. Sergio Barozzi, managing partner dello studio.
Le interazioni tra la gestone del personale e la valutazione del rischio

Le inchieste dell’ispettore Grande Gian. I reati nella gestione del personale.

Registrazione di comunicazioni e videoriprese in ufficio da parte del datore di lavoro: è interferenza illecita nella vita privata e non mera violazione dello Statuto dei Lavoratori.
Marco Giangrande
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I reati nella gestione del personale
Serena Muci
→ PDF

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HR Manager day: come gestire lo stress in azienda.

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L’evoluzione nella gestione del Personale.

LO STATO DELL’ARTE NEL DIRITTO DEL LAVORO

L’evoluzione nella gestione del Personale

Potere disciplinare
Nel contesto del più ampio potere direttivo: rappresenta la facoltà riconosciuta al datore di lavoro – nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato – di irrogare sanzioni disciplinari al lavoratore
che venga meno ai propri obblighi contrattuali